Ogni anno pagheremo le prestazioni sanitarie che utilizzeremo fino a una franchigia calcolata sul nostro reddito. Oltre questa soglia le prestazioni ci saranno erogate a titolo gratuito per il resto dell’anno in base al bisogno. L’anno dopo si ricomincerebbe: ci viene ridefinita la franchigia in base al nuovo reddito annuale, paghiamo fino a un certo valore di prestazioni sanitarie consumate e poi nessun altro onere diretto a nostro carico.
È una recente proposta del ministero della salute finalizzata a ridefinire il sistema di compartecipazione. Sarà meglio o peggio di quello attuale? Ci guadagnano i più deboli o i più fortunati? Basterà per far rientrare nel sistema pubblico la crescente domanda di diagnostica e trattamenti che il privato soddisfa senza attese ingiustificate?
Il dibattito è appena iniziato ed evidenzia dubbi e problemi di fattibilità ed equità. Ad esempio Nerina Dirindin (lavoce.info del 15.05.2012) mette in guardia dai rischi di rendere meno “pubblico” il nostro sistema sanitario, sostenendo che “la franchigia fa male alla sanità pubblica”. Prefigura, inoltre, costi aggiuntivi che si renderanno necessari per smontare il sistema dei ticket e delle esenzioni e per rimontarlo con nuove regole.
Saranno poi necessarie tessere sanitarie “intelligenti” per gestire il nuovo sistema in modo dinamico (con costi di informatizzazione da definire), non solo per ciò che riguarda i pagamenti ma anche per determinare la franchigia annuale. Chi vedrà improvvisamente modificato il proprio reddito per la caduta in povertà a causa della perdita del lavoro (oggi situazione molto diffusa), come potrà farlo senza sottoporsi a burocrazie inutili e a volte umilianti?
Vediamo ora un aspetto del problema e della soluzione ipotizzata dal ministero. La franchigia proposta ai contribuenti sarebbe una tassa commisurata al reddito e al consumo. Il ministro ritiene che in questo modo il sistema sanitario manterrebbe il suo carattere di universalismo e di equità. Il primo (universalismo) potrebbe continuare a contare sull’impegno di dare risposta a tutti quelli che ne hanno effettivo bisogno. Il secondo (equità) avrebbe vantaggi dal fatto che in una società migliore di quella attuale tutti pagheranno le tasse.
Ma, come sappiamo, non viviamo in un mondo di onesti e solidali. L’evasione è stimata dalla Banca d’Italia in almeno 130 miliardi di euro all’anno. Sono poi ben noti i limiti dell’Isee di fotografare l’effettiva situazione reddituale e patrimoniale dei beneficiari delle prestazioni assistenziali. La riforma potrebbe diventare un regalo agli evasori. Oltre a non pagare le imposte non pagherebbero neppure la tassa per le prestazioni sanitarie che consumano grazie alla franchigia calcolata sui loro “piccoli” redditi.
Con questo nuovo sistema, inoltre, potrebbero essere chiamati a pagare anche coloro che fino ad adesso godono dell’esenzione dal pagamento del ticket in virtù di in una condizione di salute compromessa (gli esenti per patologia).
Avremmo quindi un sistema eccessivamente universalistico e meno equo di quello che conosciamo. In un sistema così definito che vantaggio ne traggono gli evasori a emergere dalla loro oscurità? Nessuno. I più abili tra di loro troveranno il modo per sembrare poveri assoluti (cioè dimostreranno di avere una spesa per consumi mensile inferiore a 961,12 euro se sono due adulti che vivono in grandi comuni del Centro Italia); gli altri non troveranno difficoltà a rientrare tra i poveri relativi (cioè a dimostrare che vivono in una famiglia di 2 persone con spesa mensile per consumi inferiore a 992,42 euro). Per coloro che dichiarano meno o molto meno di quello che dovrebbero sarebbe un ulteriore sconto, visto che non pagherebbero i ticket che oggi pagano e oltre la franchigia avrebbero tutto in regime di gratuità.
Cosa succederà poi se gli attuali 2 miliardi di gettito ottenuto con i ticket non saranno assicurati dal nuovo sistema? Sarà necessario alzare la soglia della franchigia per garantirli e, anzi, visto che siamo in tempo di crisi, per raccoglierne almeno il doppio (questa è l’ipotesi più verosimile), senza dirlo ad alta voce, per ridurre il deficit sanitario, così da far rifiatare le regioni per un po’ di tempo.
Abbiamo un governo tecnico che per definizione ha gli strumenti per capire i problemi e le soluzioni, evitando il rischio delle scelte “politiche” seduttive, quindi poco interessate a dire la verità, dannose sul piano economico e sociale.
Nella curva Nord (composta da Inghilterra, USA e altri paesi dell’emisfero alto settentrionale) il modo attuale per parlare di questo problema è “implementation”, riferito alle scelte politiche e tecniche. A questa big issue hanno dedicato la prima Biennial Global Implementation Conference (GIC) a Washigton D.C. nell’agosto 2011.
Nella curva Sud, quella nostra, mediterranea, con sapienza più antica sappiamo che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”.
Più pragmatico il primo modo, più scoraggiante il secondo. Entrambi chiedono la stessa cosa: un forte esercizio di responsabilità, personale e sociale, per rispondere alla domanda: ”quello che proponiamo/ci viene proposto è utile, attuabile, sostenibile, efficace?”. È la domanda che le politiche di welfare cercano di evitare, anteponendo soluzioni giuste “per decreto”, “politiche” appunto, interessate agli utili a breve e non a quello che succederà veramente. I costi saranno comunque a carico di altri, dopo di noi.
Alla fine del secolo scorso quando si parlava di sanitometro si guardava al gettito e alla perdita causata dalle esenzioni. Si riteneva ad esempio che considerando la numerosità attesa dei richiedenti (13 milioni), sarebbe risultata impraticabile l'ipotesi di concentrare sulle aziende sanitarie lo svolgimento delle verifiche (ognuna delle 197 aziende avrebbe dovuto gestire in media 64 mila richieste). Non sarebbe stata una passeggiata.
Le anticipazioni di stampa sulle ipotesi allo studio del ministero non dicono quindi abbastanza. Sarà interessante conoscere il testo integrale della proposta, e soprattutto i risultati dell’analisi di impatto della regolazione (AIR), che è auspicabile sia stata realizzata in modo approfondito, viste le ripercussioni che queste ipotesi di riforma avranno sulla popolazione. Abbiamo bisogno di un governo responsabile delle proprie decisioni e delle loro conseguenze. I fautori del sistema universalistico sarebbero rassicurati. Capirebbero che la crisi non è un espediente per improvvisare.