La notte e l’alba: educazione tra sofferenze e speranze è il tema dell’incontro che si è svolto sabato 6 ottobre nell’aula magna “Galileo Galilei” dell’università di Padova e al centro culturale San Gaetano. I partecipanti provenivano da realtà italiane e straniere: insegnanti, studiosi e ricercatori, interessati a chiedersi quale potrà essere il futuro dell’educazione in una società poco capace di speranza. Lo ha promosso EDU (educazioneunità
www.eduforunity.org) del movimento dei focolari, insieme con l’Università di Padova, AZIONE per un mondo UNITO, associazione PANTHAKU. Sono intervenuti
Giuseppe Milan, docente di Pedagogia interculturale dell’Università di Padova,
Tiziano Vecchiato, direttore della fondazione Zancan di Padova,
Maria Amoroso insegnante a Parigi,
Patrizia Mazzola dell’AMU di Roma,
Marco Provenzale della rete “Progetto Pace”,
Maria Teresa Siniscalco dell’OCSE Parigi e altri ancora.
Giuseppe Milan, insieme ad altri componenti di EDU, ha presentato gli ultimi risultati della riflessione del gruppo internazionale sul tema del convegno, evidenziando che “Stiamo vivendo una notte culturale e pedagogica e il legame tra la notte e l’alba esprimono efficacemente lo stato del problema e l’idea di un’educazione tra sofferenze e speranze. È affidato a noi educatori, soprattutto, questo impegno “ad ogni costo”, questa necessità di “aguzzare l’ingegno” con tutti gli strumenti dell’educazione, per far emergere la pietra preziosa che c’è in ciascuno. Aguzzare l’ingegno, per comprendere quell’intimo disagio, quella sofferenza esistenziale, che si esprime anche come difficoltà ad essere soggetto, protagonista, nella complessa trama delle relazioni io-tu-noi-mondo. C’è chi, vittima di un’assenza d‘intenzionalità, di protagonismo, si considera un nulla, vittima di un mondo soverchiante che annulla ogni autostima. E c’è chi, al contrario, vive un protagonismo onnipotente: esiste soltanto l’io, un narcisismo che annulla l’altro, il mondo. In ogni caso, questi squilibri identitari e relazionali provocano frustrazioni e forme varie di aggressività, autoplastiche e alloplastiche, verso se stessi e verso gli altri e il mondo… mettendo in un circolo vizioso un disagio che genera disagio, provocando in ultima analisi la frantumazione dell’io, delle relazioni interpersonali, dell’appartenenza sociale. Sono temi che troviamo nelle nostre famiglie, nelle classi, nelle nostre città che, oltretutto, risentono delle difficoltà della convivenza multiculturale e delle trappole identitarie connesse alle patologie relazionali che si evidenziano anche in quest’ambito.
L’educatore, perciò, non si tira indietro: è disponibile all’ascolto empatico, che significa “mi rendo conto del suo dolore… di un ‘nuovo’ dolore, suo, mai provato da me”, e proprio a partire da questa partecipazione profonda all’altro, assume la sua sofferenza, la sua vulnerabilità. Non si lascia vincere dalla tentazione dell’evitamento, cadendo nell’indifferenza o in altre forme di negligenza. Non desiste ma resiste, perché sa che questa forma, anche estrema, di resistenza permette all’altro di ri-esistere. Non si chiude in una comoda immunità (immunitas) ma si fa carico dell’altro, degli altri, della comunità (communitas). Communitas è il contrario di immunitas.
È questa la strada, come testimonia anche chi si impegna in realtà sociali ed educative di frontiera, per ricomporre ogni frammentarietà in unità, per riscattare ciò che sembrava perduto, per ridonare cittadinanza a chi si sente escluso, per far risorgere la comunità ove parrebbe imperare il buio dell'individualismo. Qual è il momento preciso del passaggio dalla notte al giorno? Un antico aforisma ebraico presenta questa domanda di un rabbino saggio, alla quale i presenti danno varie risposte, tutte superficiali e sbagliate. Evidentemente la risposta giusta, che alla fine il saggio sarà costretto a dare, è tutt’altro che facile e scontata.
Tiziano Vecchiato è intervenuto sul senso e le possibilità dell’aiutare oggi, alla luce delle recenti elaborazioni della fondazione Zancan sul tema della notte e dell’alba del nostro welfare. Il punto di partenza è “l’incontro con l’altro: esperienza del limite e della speranza”. Su questo Vecchiato ha evidenziato che “nei servizi alle persone l’incontro con l’altro nasce da esperienze di fragilità, di mancanza, da condizioni di necessità. Può essere: fragilità di organi, funzioni vitali, emozionali, economiche, … Tutte situazioni in cui da solo non è possibile farcela. Nell’incontro con l’altro in difficoltà i problemi si concentrano e sono amplificati. Non a caso le innovazioni di welfare sono avvenute in condizioni limite, quando l’intensità del bisogno e della sofferenza ha sollecitato la ricerca di azioni generative. Ben oltre l’ aiuto donato. A distanza di sicurezza dall’assistenza e dalla beneficienza senza incontri tra persone. L’altro vorrà incontrarsi con me? È una domanda poco consueta. La risposta non è scontata, in particolare nella relazione di aiuto.
Significa accettare il rischio dell’incontro, dove il limite non si riduce. Può alimentarsi del conflitto silenzioso tra chi offre aiuto e chi lo chiede. Il prezzo da pagare è accettare l’incontro, ammettere la propria debolezza, il proprio bisogno. Un modo per evitare questa sofferenza è farsi riparare dalle procedure, dalle regole che aiutano, ma senza incontrarsi. Un modo per farlo è di trasformare i diritti in prestazioni, in cose da ricevere, senza incontro delle capacità e delle responsabilità. Riscuotendo quello che mi spetta, anche se non ne ho bisogno. È una dinamica diffusa nel welfare di oggi. Consuma risorse senza rigenerarle. Per rigenerarle è necessario l’incontro delle capacità e delle responsabilità. È ambiente generativo di vita, che solo la trasformazione professionale e personale possono rendere possibile, nell’incontro appunto”.