È giunta alla quarta edizione la rassegna nazionale dedicata alla saggistica politica (26-27 ottobre, Roma), promossa dalla Camera dei deputati d’intesa con l’Associazione Italiana Editori e con la collaborazione dell’Associazione librai di Roma.
Per due giorni si sono svolti incontri con gli autori e 14 tavole rotonde, discutendo novità editoriali che hanno avuto come filo conduttore il libro politico.
Tra queste è stato presentato il volume di Paola Rossi «Sette paia di scarpe».
Paola Rossi è stata Segretario nazionale del sindacato unitario di categoria Sunas e primo Presidente dell’Ordine nazionale degli assistenti sociali dal 1996 al 2005.
Proponiamo una sintesi del volume a cura di Tiziano Vecchiato.
Storia di una professione e storia di una vita, insieme, passo passo, con sette paia di scarpe. Una vita non facile, con tanti problemi, fin dall’inizio: un’infanzia lontano da casa e dopo tante infanzie senza una casa. La provincia di Roma come campo di azione, mentre nascono i dubbi che forse l’azione professionale poteva non bastare, che la troppa protezione poteva nascondere poca umanità.
Sono i primi passi di una professione, con ancoramenti di valore e di metodo. Potevano sembrare insufficienti, rispetto alle tecniche ostentate da altre professioni, come simboli di ruolo e di potere. «Certo la preparazione professionale ti sostiene, ti dà la capacità di distinguere e di contenere le tue emozioni, di leggere le situazioni. Avere un codice di comportamento e compiti istituzionali e professionali chiari costituisce un riferimento necessario. Ma talvolta vieni tirato fuori dai binari su cui credi di muoverti e sei nudo di fronte a quesiti che non ti sei mai posto» (p. 19).
Ma quella che poteva sembrare fragilità era anche una domanda di verità: quello che facciamo a chi serve? All’istituzione, alle consuetudini assistenziali, agli «utenti»? Nella storia di un’assistente sociale gli «utenti» non erano ancora persone, erano bambini abbandonati, esposti, con genitori sconosciuti, senza speranza di famiglia, con un futuro da inventare. Non era sufficiente accoglierli, proteggerli, nutrirli, crescerli, senza pensare al dopo, senza collegare un presente fatto di assistenza con un futuro tutto da costruire.
I primi passi non sono facili. «Le scuole di servizio sociale, infatti, erano una scelta formativa non certo legata al caso, ma conseguenza di una precisa presa di posizione. Ci si schierava dalla parte degli ultimi, si dimostrava di voler capire le ragioni della loro condizione e di voler fare qualcosa per l’uguaglianza e il riconoscimento dei diritti di tutti. Naturalmente si mettevano in gioco la propria esistenza e i principi che fino ad allora l’avevano guidata» (p. 38).
Era questione del cambiamento, che si può definire «sociale», in un paese tutto da ricostruire. Ma non era un sociale generico, visto che a cambiare erano chiamate prima di tutto le professioni, facendo leva sulle capacità, la dignità, i diritti, cioè tutte cose estranee all’assistenza tradizionale. «A spronarci a seguire quella strada, però, era soprattutto la voglia di cimentarci con il nuovo e lo sconosciuto, il desiderio di capire, e di contribuire nel nostro piccolo a rimuovere alcune ingiustizie di cui eravamo testimoni e di cui, via via, acquistavamo consapevolezza. Eravamo spinti da una grande motivazione, ci sentivamo dei pionieri» (p. 42).
I colonizzatori sono venuti dopo, quando la domanda di razionalizzazione ha prevalso. «Si parlava allora di interventi globali sulle persone e sul loro contesto di vita, di un’azione estesa di prevenzione. C’era una grande speranza di rinnovamento e valorizzazione del sociale. Ho passato pomeriggi interi alla Cgil a discutere dei risultati che questo passaggio epocale avrebbe comportato. Tutto sarebbe invece lentamente svanito, negli anni ottanta, affossato per sempre dal governo Craxi che stabilì la separazione tra la spesa sociale e quella sanitaria» (p. 89).
«La lunga marcia degli assistenti sociali» è l’ultimo, il settimo paio di scarpe, quando ormai, dopo tanta strada, la professione pensava a un riconoscimento anche contrattualmente, sulla base dei risultati che negli anni aveva raggiunto. Non è stato così. «Ho sempre pensato che dietro alla sfortuna degli assistenti sociali ci fossero almeno due motivazioni di fondo. Da un lato il nostro è un lavoro quasi tutto al femminile, e questo ha il suo peso, se è vero che altre professioni (penso sempre agli infermieri) sono diventate più forti contrattualmente da quando è aumentata la percentuale di uomini che le svolgono. Dall’altro il successo degli psicologi si spiegava con il fatto che, oltre a poter contare su molti più rappresentanti in Parlamento e nel governo e sul sostegno dell’Università, erano avvantaggiati dall’affermarsi di un diverso modo di guardare all’assistenza. Una sopravvalutazione della sfera personale, individuale, rispetto alla complessità delle questioni sociali» (p. 107).
E così la storia riparte, facendo incontrare fragilità e forza di una professione che, nel diritto-dovere al segreto professionale, ha visto riconosciuto un proprio valore portante etico e tecnico. Il rapporto fiduciario è infatti uno degli strumenti essenziali del servizio sociale professionale. Testimonia la difficile e appassionata ricerca di valorizzare ogni persona, nell’incontro tra chi chiede aiuto e chi professionalmente aiuta ad aiutarsi.
Volume edito da Maggioli editore, Santarcangelo di Romagna, 2011.