1.

Carlo Maria Martini: un Cardinale in dialogo con il mondo moderno

La newsletter di agosto riporta due interventi:

 

Aveva sognato di chiudere gli occhi nella città di Gerusalemme, cuore dei suoi affetti, dei suoi studi, dei suoi sogni. Non è stato accontentato: resterà nella città di Milano che ha guidato come pastore amorevole e illuminato per 22 anni. Rimarrà nel ricordo e nell’ammirazione di quanti lo hanno conosciuto o incontrato per tanti motivi: per la sua cultura, manifestata negli innumerevoli discorsi e pubblicazioni, per aver guidato per anni il Pontificio Istituto Biblico e successivamente la Pontificia Università Gregoriana, per la capacità straordinaria di comunicare in termini accessibili a tutti le grandi intuizioni maturate nel quotidiano contatto con la Bibbia, per essere stato per decenni nella Chiesa italiana ed europea coscienza critico-profetica di fronte alle grandi sfide del mondo contemporaneo. Questi e altri motivi faranno considerare la scomparsa del Cardinale Martini un vuoto incolmabile.
La Fondazione «E. Zancan», impegnata nel sociale, ritiene doveroso ricordare questa grande figura di Vescovo per alcuni motivi, sui quali essa è più sensibile e operativamente coinvolta: il primato dato alla persona umana, la scelta dei poveri, il metodo del dialogo e della non violenza.
Il primato dell’uomo
Anzitutto, ci ha colpito la sua costante preoccupazione di costruire ponti tra persone diverse per orientamenti, per fede, per sentimenti, per filosofia di vita. Per lui al di sotto di tante diversità, che spesso generano contrapposizioni, c’è un elemento comune che sollecita l’unione ed è la comune appartenenza all’umanità, la medesima dignità, la radicale uguaglianza di ogni persona. Il Cardinale Martini considerava questa comune appartenenza non un semplice dato sociologico ma una certezza, che scaturiva dalla sua fede. Ogni creatura umana, al di là dei propri meriti e demeriti, è amata personalmente da Dio, è spazio in cui opera lo Spirito, è pertanto portatrice di valore e merita rispetto e ascolto. 
Certamente il già Arcivescovo di Milano aveva presente il pensiero e-spresso da S. Tommaso d’Aquino nella «Summa Teologica»: «La verità, chiunque la dica, viene dallo Spirito Santo. Il bene, chiunque lo faccia, viene dallo Spirito di amore divino». 
Fu questa certezza che lo spinse a cercare il dialogo con i capi religiosi delle Chiese ortodosse e protestanti, con gli ebrei e i musulmani, con i buddisti e i capi di tante altre religioni. Gli incontri e-cumenici, che egli ha sollecitato e promosso, non erano finalizzati alla cattura di consensi o di facili simpatie verso la propria persona. Nascevano dal desiderio di capire quello che il Signore rivelava a questi fratelli di fedi e di religioni diverse e che poteva diventare ricchezza comune.
Ancora più significativa, in questa ottica, è da considerare l’istituzione della «Cattedra dei non credenti», avviata nel 1987 e proseguita fino al 2002. Consisteva in una serie di incontri ai quali furono invitati esponenti della cultura e del mondo intellettuale privi del dono della fede. Lo scopo era quello di favorire il confronto, tra chi crede e chi no, su temi diversi, riguar-danti il senso profondo del vivere, quali «Le ragioni della fede», «Il senso del dolore», «Fedi e violenze», «Orizzonti e limiti della scienza», «Domande sulla giustizia», «L’uomo di fronte al silenzio di Dio» ecc. Da notare che non si trattava di cattedre per impartire la fede ai non credenti, ma di spazi offerti per esprimere le loro ragioni e confrontarle con chi crede. Credenti e non credenti si presentano come «mendicanti», bisognosi di capire e di approfondire sé stessi con l’aiuto degli altri, dei «diversi» da sé.
«Io ritengo - disse il Cardinale spiegando il senso della cattedra - che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me. La chiarezza e la sincerità di tale dialogo si pongono come sintomo di raggiunta maturità umana».
La scelta dei poveri: tra cultura e vita
Il Cardinale Martini è stato uno studioso della Scrittura di altissimo va-lore. Non era però uno studioso astratto, puramente teorico. Si è sempre preoccupato di rendere attuale e incarnata la Parola di Dio ed è stato anche all’interno della Chiesa «coscienza critica», nel rilevare il frequente distacco tra la fede e la vita.
Nel corso di un convegno organizzato nel 1984 dalla Caritas Italiana sul tema «Volontariato, comunione, comunità» rilevava come una causa della scarsa attenzione data dalla Chiesa italiana all’esercizio della carità fosse da attribuire alla carenza di riflessione teologica sull’argomento: «Gli studi teologici sul servizio della carità registrano una lacuna dello studio teologico sul mistero della Chiesa e sulla prassi pastorale: mentre sono stati abbastanza approfonditi i rapporti Parola-Chiesa e Sacramenti-Chiesa, non è stato ancora messo sufficientemente a tema il rapporto Carità-Chiesa».
Non si trattava di una sua occasionale riflessione sul tema. Essa era frutto di un approfondimento che lo aveva toccato e vitalmente coinvolto. Monsignor Vincenzo Paglia, assistente spirituale della Comunità di S. Egidio, ha rivelato, in occasione della scomparsa di Martini, una confidenza fattagli da Martini stesso quando era ancora rettore del Pontificio Istituto Biblico a Roma: «Io parlo molto di evangelizzazione, ma con i poveri faccio poco… Vorrei spendere almeno mezza giornata alla settimana con loro». Il desiderio del gesuita si tradusse subito in una proposta subito accettata: prendere in una specie di affidamento una persona anziana. Da quel momento, per anni l’illustre professore gesuita, futuro arcivescovo di Milano, dedicò sistematicamente mezza giornata alla settimana, a servizio di un anziano abitante nel quartiere Trastevere, lavando i piatti, pulendo per terra, facendogli la spesa.
L’attenzione privilegiata ai poveri segnerà tutto il suo Episcopato milanese. Ne sono segno le fotografie che lo vedono indossare il grembiule e servire i pasti agli emarginati seduti alla mensa di Fratel Ettore, alla stazione centrale, il contatto con i carcerati di S. Vittore dove a Natale celebrava sempre la prima Messa, il dono che ha voluto fare alla città, al temine del suo ministero episcopale, cioè «La Casa della carità». Intendeva, con questo gesto, restituire alla città qualcosa che aveva ricevuto grazie a un lascito di un imprenditore milanese.
Il dialogo e l’amore come vittoria sulla violenza
Il Cardinale Martini ha dovuto confrontarsi, negli anni settanta e ottan-ta, con il fenomeno del terrorismo, che ha seminato nel nostro paese paura e costernazione per le tante vittime innocenti, alcune delle quali illustri: pensiamo in particolare a Vittorio Bachelet e ad Aldo Moro. L’arcivescovo di Milano fu coinvolto in prima persona da gravi fatti di sangue: due mesi dopo il suo ingresso a Milano, il 19 marzo 1980, le Brigate rosse colpirono a morte all’Università Guido Carli; poche settimane dopo fu la volta di Walter Tobagi. 
Pur nello smarrimento creato da tanta irrazionale violenza, Martini secondo il suo costume volle mettersi in ascolto dei protagonisti di questo fenomeno e decise di incontrare più volte i «terroristi» in carcere, sia per capire le radici del fenomeno sia per aiutare questi giovani a uscire dalla logica della violenza che li aveva guidati nei loro gesti insani. 
Non sappiamo cosa egli abbia detto ai terroristi e cosa essi gli abbiano confidato. Sappiamo però che nel 1984 il gruppo di Prima Linea decise di far recapitare all’Arcivescovado di Milano in alcune grosse sacche l’intero arsenale di armi e di esplosivi, come segno pubblico dell’abbandono della lotta armata. Martini stesso ha commentato così l’episodio: «Sono convinto che questi momenti di incontro hanno aiutato i terroristi a capire di essere anch’essi persone umane e quindi di poter vedere nell’altro la persona umana da comprendere e da amare».
Il Cardinale ha avuto modo di confrontarsi anche con altre forme di violenza, ma il suo atteggiamento fu identico: condanna netta per la violenza, fiducia nel recupero di chi aveva sbagliato. Mi sia consentito un ricordo personale. Nell’ottobre del 1995 fu barbaramente uccisa a Merca, in Somalia, Graziella Fumagalli, una dottoressa che dirigeva con competenza, amore e passione instancabile il centro medico della Caritas italiana, occupandosi in particolare dei malati di Tbc. La salma fu portata in Lombardia dove viveva la famiglia di Graziella. Il Cardinale Martini volle presiedere la celebrazione funebre. Mi colpirono ancora una volta le sue parole di compassione paterna per i famigliari ma insieme di speranza. Considerava questa dottoressa cristiana una martire della carità e si diceva certo che il sangue versato nel servizio di amore per i fratelli costituisse un seme di riconciliazione per il martoriato popolo della Somalia e insieme un incoraggiamento per la protezione che Graziella avrebbe garantito alla Caritas Italiana.
Questo è sempre stato il filo conduttore del cammino pastorale del Cardinale Martini: la fede è vera se si traduce in testimonianza di amore e l’amore ha la forza di vincere ogni violenza.
2.

Diritto alla salute, Spending review, universalismo

Lo scorso 6 luglio Fondazione Zancan, Gruppo Abele, Sos sanità hanno promosso un incontro di approfondimento su «Diritto alla salute, Spending review, universalismo». L’incontro si è svolto proprio all’indomani dell’approvazione del provvedimento sulla cosiddetta spending review. Quali le considerazioni a provvedimento approvato? Quali gli aspetti maggiormente problematici o meglio negativi?

Le scelte successive per ora vanno nella direzione della razionalizzazione e della riduzione della spesa e non in favore dello sviluppo. La razionalizzazione senza sviluppo serve per fare cassa ma non per affrontare i problemi. Non è un segreto, visto che tutti ne sono consapevoli, ma non si ha abbastanza coraggio per intervenire dove ci sono potenziali di rendimento. Le imprese per superare la crisi, nei limiti del possibile, innovano processi, prodotti, strategie… I servizi alle persone (sociali, sanitari, educativi) non sono diversi. La Costituzione ne ha fatto strategia per costruire cittadini e cittadinanza, con forme partecipative, promuovendo le responsabilità necessarie per il bene comune. Non li ha pensati come mera assistenza e beneficienza pubblica, per far prevalere i diritti senza doveri e con diritti soltanto amministrati, senza chiedere di non usarli senza bisogno. 
La revisione della spesa va (andrebbe) associata ad un «redde rationem», una «resa dei conti», quelli a perdere, per capire come nel welfare le responsabilità vengono sottratte ai possibili investimenti di solidarietà e sviluppo sociale. Anche i servizi alle persone possono e devono contribuire al superamento della crisi e al rinnovamento sociale. Ma non possono farlo se gli viene sottratta linfa vitale e necessaria, se vengono deprivati, portati fuori dalla possibilità di garantire livelli essenziali di assistenza. Non è da oggi che gli sprechi e le inefficienze sono affrontati, ma solo «per processi» (soprattutto in sanità) e non nelle contraddizioni più profonde, di sistema di welfare, che è «redistributivo» e non anche «rigenerativo» di risorse. È l’eredità del Novecento, che dobbiamo rimettere in discussione, non per togliere, ma per dare di più.
Uno dei punti del provvedimento riguarda la riduzione dei posti letto con il passaggio dal 4 al 3,7 per mille. Nel giro di pochi anni c’è stata una diminuzione complessiva di posti ospedalieri di quasi 1,5 posti per mille abitanti e anche la funzione di post acuzie è diminuita dello 0,3 per mille. A fronte di questa riduzione non c’è stato alcun investimento in termini di dotazione exstraospedaliera e ancora meno sulle cure a domiciliari attraverso la fissazione di standard minimi  di offerta. Quali le tue considerazioni in proposito?
È un esempio di quello che ho appena detto. La riduzione dei posti letto inappropriati va fatta. Nessuno potrebbe sostenere il contrario, ma se, togliendo, si sostituiscono risposte efficaci, appropriate, a costo/efficacia migliore di quelle eliminate. Cosa si offre oggi a chi dopo un ricovero continua ad essere malato, traumatizzato, inabile, con ridotta speranza di vita, con polipatologie croniche? La risposta è «condizionata» e affidata alla speranza: cure domiciliari, assistenza domiciliare, terapie non residenziali, sostegno ai familiari… Ma tutto questo non avviene o è soltanto dichiarato. Non bastano innovazioni di linguaggio, servono soluzioni autentiche. Il saldo resta drammaticamente negativo, visto che a ogni posto letto tagliato non corrispondono maggiori «posti a domicilio» e maggiori «posti territoriali». 
La sottrazione di risposta si accompagna alla sottrazione del diritto a cure necessarie. L’onere economico ed esistenziale viene scaricato sulle famiglie, quando ci sono, e sulle persone. Le nuove capacità di curare e prendersi cura, abbinate alle tecnologie trasportabili, consentono oggi di affrontare bisogni molto gravi a casa, a indici di costo/efficacia molto più convenienti per tutti. Abbiamo fatto sperimentazioni in diverse regioni, con persone gravemente non autosufficienti e con i loro operatori: l’efficacia confrontata con l’offerta residenziale (ospedaliera e di altra natura) è risultata vantaggiosa, come pure i costi, al punto da poter dire che ad ogni letto eliminato si potrebbero creare molti più «posti domiciliari» visto che i costi, in certi casi e a parità di esito, si sono rivelati anche 10 volte inferiori all’assistenza di analoga e spesso inferiore qualità erogata in modo tradizionale, anche grazie all’apporto fondamentale dei familiari.
Lo spending review non ha potuto riguardare invece i servizi sociali perché … non c’era più nulla da tagliare considerato l’azzeramento del fondo sulle politiche sociali? 
La cultura tradizionale ragiona in termini di «assistenza sociale». È figlia della più classica «assistenza e beneficienza pubblica». I «servizi sociali» non sono nella mappa mentale della politica. Praticamente è come se non esistessero, se non per alcune eccezioni riguardanti la prima infanzia o alcune risposte sociosanitarie, che tuttora trovano grandi difficoltà ad affermarsi (si pensi soltanto al consultorio familiare). Il resto dei servizi sociali è accoglienza residenziale (per bambini, persone con disabilità, anziani). È governata con rette da erogare ai gestori, a cura dei beneficiari o a dei comuni, se i beneficiari sono poveri o minorenni. Il resto (è un resto che somma il 90% degli oltre 50 miliardi della spesa assistenziale) sono trasferimenti economici. C’è poco di nuovo welfare e di innovazione in questa situazione.
La nuova cultura dei servizi sociali (alle persone e alle famiglie), come vorrebbe la Costituzione, non è ancora decollata. Ci sono interessi troppo forti, che spingono a mantenere le cose come stanno, soprattutto tenendo in essere il potente sistema dei trasferimenti economici, che scorre «tecnicamente fuori controllo» degli erogatori, visto che ognuno controlla «amministrativamente» la propria parte, ma non vede l’insieme di quello che ricevono i beneficiari. Il principale risultato politico è che non viene intaccato il sistema di consenso. Il risultato tecnico è che chi ha bisogno può ottenere di più del necessario, utilizzando le regole a disposizione.
Il maggiore rendimento dei servizi è fuori discussione e chiunque sarebbe disposto ad ammetterlo, ma in via di principio, anche perché le analisi della Banca d’Italia, dell’OCSE, di centri di ricerca e della Fondazione Zancan non permettono di sostenere il contrario. Ma si «continua a fare come sempre», protetti da un sistema di norme immobile e a cui si chiedono altre «provvidenze». L’ultima proposta di reddito garantito aggiungeva oltre due miliardi alla spesa corrente. I comuni sono un punto politico rilevante, visto che le gestioni mono comunali dell’assistenza consentono ai politici locali e regionali di poter dire «ti ho dato questo aiuto». Sono modi per alimentare gestioni privatizzate di «fondi pubblici», a fini di consenso elettorale. Anche recentemente l’attenzione delle Regioni si è concentrata sul fondo delle politiche sociali, che è una piccola percentuale del valore complessivo della spesa per assistenza sociale. Nei momenti più fortunati è arrivato a rappresentare circa 1/50 del totale della spesa complessiva, quindi poco per poter pensare di utilizzarlo per scelte strutturali e poco per poter sostenere che il suo taglio pregiudica il nostro sistema di assistenza sociale. I potenziali di miglioramento ci sono, per investimento e non per ulteriore assistenza. È un passaggio difficile, che per ora non viene considerato, anche perché non è ritenuto alla portata delle politiche, soprattutto in tempi di crisi.
Tu in più occasioni hai posto l’attenzione sulla sproporzione esistente tra trasferimenti monetari e trasferimenti per servizi. Puoi sintetizzare il quadro della situazione. Come riuscire a cambiare questa situazione?
La situazione, come ho detto prima, è statica, visto che, malgrado la riforma dei servizi e degli interventi sociali del 2000 e le norme regionali, non sono cambiate le regole del gioco: tanti trasferimenti e pochi servizi. Ma se le risorse vengono soltanto trasferite, senza farle rendere – in termini di valore aggiunto e di esito – il saldo è negativo. Il totale della raccolta fiscale destinato all’assistenza sociale, al netto dei costi amministrativi è di segno negativo, perché gran parte dell’assistenza sociale non è diventata sistema di interventi e servizi sociali ma è ancora strutturalmente redistribuzione di reddito. In questo modo è difficile guadagnare in termini di inclusione, uscita dalla povertà, coesione, sviluppo sociale. Chi ha gravi bisogni resta solo (senza i Lea servizi che dovremmo garantirgli) e chi, al contrario, sa ottenere porta a casa più del necessario. È una situazione che incoraggia le tentazioni di tagliare, anche perché la verifica costi/benefici sarebbe perdente. Non sarebbe infatti difficile utilizzare strumentalmente le attuali contraddizioni strutturali per ridurre ancora le risorse destinate ai servizi alle persone. Al mercato non dispiacerebbe e nemmeno al sistema delle assicurazioni private.
Concludiamo con una tua valutazione sull’operato in tema di politiche sociali del governo Monti
Molti ne parlano bene. Si tratta di capire perché e se non si sia creato un effetto group think, cioè di adesione acritica ad un certo modo di pensare perché sembra più conveniente. I critici sono quelli che hanno perso il potere che avevano, al governo e all’opposizione. Già questo ci dice quanto siano disinteressati. Il giudizio positivo va sul «forse scampato pericolo». La finanza pubblica era sull’orlo del baratro. Le vicende di Grecia e Spagna ci aiutano a capire più da vicino le possibili conseguenze. Ma per adottare la terapia d’urgenza che conosciamo Monti è stato costretto a dubitare di alcuni suoi «credo» di una vita, subendo la sistematica guerriglia di poteri economici protetti da norme troppo liberali. Sono così liberali da poter mettere in ginocchio «in modo legittimo» interi paesi: impoverendo oltre misura i più poveri e rendendo meno ricchi i benestanti. Scelto dal Capo dello stato ha dovuto riusare in fretta, e in modo sbrigativo, ricette che aveva praticato in Europa, per contrastare speculazioni ingiustificate in materia di concorrenza, con Romano Prodi. 
Lo ha certamente aiutato il fatto di conoscere le «controparti» di quel mercato a cui il bene comune non interessa. Non gli hanno fatto sconti, anzi hanno approfittato della sua e nostra debolezza in tutti i modi. È un’esperienza che sta aiutando a riflettere sul fatto che la cultura liberale ha liberato gli individui (quando erano oppressi dai poteri assoluti e poco democratici) ma oggi le parti si sono invertite. Sono i diritti economici, interpretati in modo egoistico e opportunistico, a poter mettere alle corde intere economie e democrazie. Giovanni Paolo II ci aveva indicato questo pericolo nelle sue encicliche sociali. Lo stiamo sperimentando. La fragile difesa dei diritti della cultura socialista non ha saputo fare di più e di meglio, visto che i doveri sono stati messi in un angolo da entrambe le culture, accettando e legittimando giuridicamente pratiche sociali individualistiche. Monti con il suo governo ha difeso per quanto possibile il debito pubblico dagli attacchi speculativi, ha emanato provvedimenti per metterlo al sicuro, intervenendo nella previdenza e nel lavoro. Per l’assistenza sociale e sanitaria non ha pensato a scelte di investimento, che potrebbero essere fatte, soprattutto adesso. Si è detto che sono a vantaggio delle nuove generazioni. Se sarà così, avremo ricreato condizioni per reinventare la democrazia, visto che è proprio il suo degrado che ci ha portato sull’orlo del baratro. È stata poco responsabile delle proprie scelte, basate sul consenso ad ogni costo, finanziandole con debito pubblico e spostando gli oneri sulle generazioni successive, cioè su di noi e i nostri figli. Se l’azione del governo Monti contribuirà ad una rottura con il passato, renderà possibile un futuro migliore, preparando condizioni per una ripartenza. Se questa ripartenza sarà non solo per l’economia ma anche per una democrazia rigenerata nei valori e nelle persone, dovremo essergli grati, malgrado i «fuori misura» a cui non ha potuto/saputo sottrarsi.

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