Roma, 15 ottobre 2007 – In vista della giornata mondiale della povertà, in calendario il 17 ottobre, e dell’avvio della 45ª Settimana sociale dei cattolici italiani, in programma dal 18 al 21 ottobre, oggi lunedì 15 ottobre Caritas Italiana e Fondazione Zancan di Padova hanno presentato a Roma il VII Rapporto sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia, dal titolo “Rassegnarsi alla povertà?”, che sarà nelle librerie nei prossimi giorni.
L’ultimo Rapporto dell’Istat sulla povertà nel nostro Paese indica che sono in stato di povertà 2.623.000 famiglie, corrispondenti a 7.537.000 persone, cioè il 12,9% della popolazione, di cui i due terzi vivono al Sud. Un dato che è rimasto “sostanzialmente stabile” negli ultimi cinque anni. Quale è il motivo di questa stabilità? È davvero sempre uguale il volto della povertà in Italia o qualcosa è cambiato? Quali sono le famiglie “a rischio povertà”? Si può fare qualcosa? Il VII Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia si intitola: “Rassegnarsi alla povertà?”. È la domanda che nasce proprio di fronte a questa situazione di stallo, di incapacità di affrontare il problema, di stabilizzazione e per certi aspetti di allargamento dell’esclusione sociale.
LE FAMIGLIE A RISCHIO POVERTÀ
L’elemento di novità emerso dalle diverse inchieste sulla povertà degli ultimi anni è l’aumento numerico non di famiglie povere, ma di famiglie non computabili come povere solo perché le loro risorse finanziarie sono appena sopra la linea della povertà, ossia la superano per una somma esigua che va da 10 a 50 euro al mese. L’Istat calcola che queste famiglie “a rischio di povertà” siano oltre 900 mila. Esse arrivano con difficoltà alla fine del mese, e sono costrette a indebitarsi e a ricorrere ai centri assistenziali, nonostante abbiano un lavoro e un reddito. L’impiego di una linea standard per stimare chi è povero e chi non lo è semplifica molto i confronti, ma non evidenzia i confini mobili del fenomeno. Come emerge dal Rapporto Caritas-Zancan, un approccio multidimensionale al problema povertà, che non tenga conto solo dell’aspetto monetario, evidenzia che se la povertà non è aumentata, è cresciuta l’insicurezza delle famiglie italiane per la preoccupazione di non essere in grado di far fronte a eventi negativi come per esempio l’improvvisa malattia, associata a non autosufficienza, di un familiare, o l’instabilità del rapporto di lavoro, o gli oneri finanziari sempre maggiori (ad esempio, mutui a tasso variabile).
Quali sono i “fattori di rischio”? L’elevato numero di componenti (le famiglie con cinque o più componenti presentano livelli di povertà più elevati); la presenza di figli, soprattutto minori; la presenza di anziani; il basso livello di istruzione; la ridotta partecipazione al mercato del lavoro. Qualsiasi fattore si consideri, nel Mezzogiorno le probabilità di essere poveri sono sempre più alte.
A comportare un maggiore rischio di povertà è anzitutto l’allargamento familiare: avere tre figli da crescere significa un rischio di povertà pari al 27,8%, e nel Sud questo valore sale al 42,7%. Il passaggio da 3 a 4 componenti espone 4 famiglie su 10 alla possibilità di essere povere. Appartenere a una famiglia composta da 5 o più componenti aumenta il rischio di essere poveri del 135%, rispetto al valore medio dell’Italia. Ogni nuovo figlio, dunque, costituisce per la famiglia, oltre che una speranza di vita, una crescita del rischio di impoverimento. L’Italia, coscientemente o meno, incoraggia le famiglie a non fare figli. I risultati di una tale politica si vedono: l’Italia occupa uno degli ultimi posti al mondo per indice di natalità.
Andando a sviscerare i dati sulla povertà di fine 2005, si vede che se il 14,7% delle famiglie arrivava a fine mese con molte difficoltà, queste difficoltà erano maggiori per: le famiglie con cinque o più componenti (22,5%) e per quelle unipersonali (16,0%); le famiglie monoreddito (18,7%); le coppie con 3 o più figli (23,5%); le famiglie monogenitoriali (19,4%). L’incapacità di sostenere una spesa necessaria ma imprevista riguardava il 28,9% delle famiglie italiane e in particolare: le famiglie unipersonali (35,6%), anziani sopratutto, e quelle con cinque e più componenti (33,5%); le famiglie monoreddito (37,8%); le famiglie con 2 minori (32,9%); quelle con un anziano (33,3%). Anche la presenza di un solo anziano nella famiglia, dunque, aumenta il rischio di povertà. Un disagio che si osserva in tutte le ripartizioni territoriali, ma la differenza rispetto alle altre caratteristiche familiari è particolarmente evidente nelle regioni del centro e del nord, che si caratterizzano anche per la maggior presenza di anziani tra la popolazione residente. Da un’incidenza media della povertà del 4,5% nel nord e del 6% nel centro, si sale rispettivamente al 6,3% e all’8% se nella famiglia è presente almeno un anziano.
LA SPESA SOCIALE
Se i dati sulla povertà rimangono stabili, viene da chiedersi come è gestita la spesa sociale del nostro Paese.
In Italia la spesa destinata all’assistenza sociale è di 44 miliardi e 540 milioni di euro, circa 750 euro pro capite. Utilizziamo circa un quarto del Pil per la protezione sociale: si tratta di un impegno non indifferente, in armonia con altri Paesi (Grecia 26,0%, Regno Unito 26,3%, Finlandia 26,7%), ma significativamente inferiore ad Austria (29,1%), Belgio (29,3%), Germania (29,5%), Danimarca (30,7%), Francia (31,2%) e Svezia (32,9%). Tuttavia, il nostro profilo di welfare si basa su squilibri interni evidenti: più della metà della spesa sociale (56,1%) è destinata alla voce «Pensioni in senso stretto e Tfr». Il resto è ripartito tra le voci «Assicurazioni del mercato del lavoro» (6,6%), «Assistenza sociale» (11,9%), «Sanità» (25,4%).
Gran parte delle risorse vanno all’ultima fase della vita, e molto meno alla prima e al sostegno delle responsabilità familiari. In dieci anni sono aumentate le voci «Pensioni in senso stretto e Tfr» (dal 55,7 al 56,1%) e «Sanità» (dal 20,8 al 25,4%). Sono diminuite le voci «Assicurazioni del mercato del lavoro» (dal 9,0 al 6,6%) e «Assistenza sociale» (dal 14,6 all’11,9%), che ha subìto la contrazione maggiore.
Ma chi gestisce concretamente questa spesa? O, meglio ancora, quanto di questa spesa è gestito direttamente dallo Stato e quanto dagli enti locali? La spesa dei Comuni per assistenza sociale al netto della multiutenza è di 5 miliardi e 11 milioni di euro, con un pro capite medio di 86,15 euro. Di conseguenza, dei 750 euro sopra indicati, i Comuni gestiscono solo 86 euro pro capite, mentre la parte restante, pari a circa 664 euro, è gestita dallo Stato o da amministrazioni da esso controllate. «In attuazione della riforma costituzionale – afferma Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan – vanno fatte scelte politiche coraggiose per trasferire progressivamente questi fondi a livello regionale e locale, vincolando la loro gestione ad azioni prioritarie di contrasto alla povertà. Attuando così non più politiche basate solo sul sostegno economico e i trasferimenti di reddito, ma su piani di inserimento lavorativo e sociale con sostegno al reddito».
LA PROPOSTA DI PIANO DI LOTTA ALLA POVERTÀ
Nel nostro Paese manca una strategia organica di contrasto della povertà. Il Rapporto Caritas-Zancan prende atto di questa situazione e si fa carico di una propria proposta di Piano nazionale di lotta alla povertà, che si basi innanzitutto su due passaggi: «da trasferimenti monetari a servizi» (per un migliore governo della quantità di risorse oggi disponibili) e «da gestione centrale a gestione decentrata» (per una diretta responsabilizzazione nella gestione e nella verifica di efficacia, oltre che per dare attuazione alla modifica del titolo V). Le parti regionali e locali dovrebbero poi definire altrettanti piani di azione regionali e locali di lotta alla povertà, dimensionando obiettivi e risorse in ragione dei risultati attesi di riduzione del bisogno presente nel proprio territorio. Un Piano di lotta alla povertà che abbia al proprio interno non solo obiettivi e finalità ma anche risultati attesi misurabili, che indichi le priorità di azione, le infrastrutture necessarie, che “corresponsabilizzi” i diversi livelli istituzionali (dal locale al regionale, al nazionale, e viceversa) e i diversi centri di responsabilità sociale (imprese, enti non profit, forze sociali, associazionismo di impegno sociale ecc.) in una comune progettualità. «Un piano condiviso di lotta alla povertà può rappresentare una grande occasione per il nostro Paese e – sottolinea S.E.Mons. Francesco Montenegro, presidente di Caritas Italiana – lottare contro la povertà nel nostro Paese vuole dire molto di più che dare qualcosa a chi ha meno, vuol dire sottrarre a un destino sociale prevedibile di precarietà e marginalità tanti ragazzi e bambini che hanno avuto la sfortuna di nascere nel posto sbagliato, nel quartiere sbagliato, nella contrada sbagliata; contrastare il predominio di un’economia criminale in molte regioni del sud, che trova nella povertà di alcuni territori la possibilità di poter disporre di un’”armata di riserva” per il proprio mercato del lavoro; costruire coesione sociale a partire innanzitutto da un senso di appartenenza sociale che le politiche di contrasto alla povertà contribuiscono a creare». E poi aggiunge: «Non abbiamo scritto un libro dei sogni ma – questo sì – coltiviamo un sogno, lucido e ragionevole. Quello della lotta alla povertà come obiettivo ordinario delle politiche del Paese».
Il VII rapporto sulla povertà e l’esclusione sociale, “Rassegnarsi alla povertà?”, nasce da esperienze e ipotesi di lavoro che Caritas Italiana e Fondazione Zancan hanno maturato e condiviso in questi anni. Il volume fa sintesi di un percorso che parte dai tentativi che hanno caratterizzato il secondo Novecento di ridurre la povertà nel nostro Paese. Evidenzia le risorse oggi disponibili, per capire se e in che misura esse potrebbero essere investite in un Piano (nazionale, regionale e locale) di lotta alla povertà. Entra nel merito delle strategie per renderlo attuabile. Lo fa anche richiamando esempi di esperienze civili ed ecclesiali, che vedono impegnati enti pubblici, amministrazioni private, Caritas diocesane, associazioni di volontariato, parrocchie, persone e famiglie ecc., cioè diversi soggetti che a livello regionale e locale potrebbero insieme fare la differenza per conseguire risultati efficaci. Nel Rapporto sono inoltre documentate le dimensioni quantitative e qualitative del fenomeno, i profili di esclusione, anche attraverso i dati dei 264 Centri di ascolto della rete Caritas riferiti a oltre 30.000 utenti nel periodo luglio-settembre 2006, nonché le esperienze di alcune Caritas diocesane e percorsi di uscita dalla povertà che testimoniano come sono possibili percorsi concreti (cfr.scheda allegata).
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