Le donne occupate in rapporto alla popolazione femminile 20-64enne in Italia sono (dato 2013) il 49,9%. In Svezia sono al 77,2%, in Danimarca al 72,4%, in Olanda al 71,6%, in Grecia al 43,3%. Per la lingua italiana la parola «conciliazione» è sostantivo femminile. Si è pensato che il lavoro andasse a scapito della fecondità: meno lavoro più figli. Ma in Europa le occupate hanno più figli delle casalinghe. Con più donne al lavoro avremmo un incremento «diretto e indiretto» del Pil. Alla produttività si aggiungerebbe la domanda di servizi per l'infanzia e la famiglia. Conviene quindi che le donne lavorino, con servizi che moltiplicano questa convenienza.
Purtroppo il cerchio del ragionamento si chiude da anni sui nidi, come se il dibattito trentennale sulla conciliazione fosse risolvibile così. Le famiglie sostengono quasi il 20% della spesa pubblica complessiva per accedere ai servizi 0-3, in questo modo vengono discriminati i più poveri. In un welfare tradizionale si ritiene che il vantaggio sia solo per la donna. Ma non è un segreto che la socializzazione precoce dei bambini 0-3 comporti vantaggi notevoli per loro, soprattutto quando saranno più grandi: i più poveri con un'alimentazione migliore possono crescere meglio mentre tutti avranno maggiori attivazioni cognitive e relazionali, sviluppando curiosità, linguaggio, esplorazioni... in spazi di vita meno confinati della propria casa. I guadagni sono stati misurati con il rendimento alle elementari, nei cicli scolastici successivi e nella migliore occupabilità.
Ma allora perché continuare a vedere la «conciliazione» come «sostantivo femminile»? C'è chi si ostina a pensare ai servizi per l'infanzia come surrogato delle cure materne. C'è chi pensa che la partita del potere tra i generi si giochi così. Ma i congedi stanno diventando «bisessuati». Resta però la questione dei livelli retributivi: in Italia le donne percepiscono salari più bassi degli uomini, banno meno possibilità di carriera, sono più esposte ai lavori precari. Il sostegno al reddito dei lavoratori con figli vale circa 6,5 miliardi di euro. Sono trasferimenti non collegati a servizi. È un classico esempio di welfare degenerativo perché il capitale investito non rende quello che potrebbe. Abbiamo stimato che 1,5 miliardi trasformati in servizi darebbero 40mila nuovi posti di lavoro, cioè meno povertà familiare e più lavoro femminile. Negli ultimi anni molte donne con figli sono diventate povere a seguito della separazione. Nel contempo alcune esperienze di contrattazione integrativa stanno offrendo soluzioni vantaggiose.
È eccessivo chiamarlo «secondo welfare», visto che è una diversa remunerazione del lavoro, a rendimento per i lavoratori e le imprese. Queste ultime lo ammettono: con «flessibilità organizzativa» il lavoro funziona meglio e la crisi fa meno paura. Ma la pubblica amministrazione resiste con lavori schiacciati dalle procedure e con un assenteismo ingiustificato. Anche il non profit è scoraggiato da accreditamenti che impediscono nuovi modi di intendere il lavoro di chi ha figli piccoli.
Perché allora non chiediamo alla conciliazione di indicarci nuove strade, «rendimento condiviso»? Un grande ostacolo viene dal «curare e prendersi cura». Molte donne dopo i figli piccoli hanno i genitori anziani da curare. È un enorme problema sociale ed economico. Nel Veneto (con 5 milioni di abitanti) la spesa pubblica (sanitaria e sociale) per la non autosufficienza è arrivata a 1,6 miliardi. Quella privata oscilla tra 1,3-1,5miliardi. Insieme parlano di un'economia di welfare «sommersa», valorizzabile favorendo conciliazione e occupazione per curare e prendersi cura. È cioè un potenziale a disposizione per l'occupazione di welfare, conciliando le esigenze di tutti, anche quelle fiscali. Ma è necessario passare dalla «conciliazione del lavoro» alla «conciliazione dell'economia dei servizi», quelli alle persone, per rigenerare fiducia e valore economico «diretto e indiretto».
Fonte: Rubrica Welfarismi di Tiziano Vecchiato su Vita, aprile 2015.