1.
L'infanzia nell'Agenda politica per investire su servizi e innovazione |
«Il futuro da costruire» è stato il tema della tavola rotonda conclusiva del terzo convegno Tfiey dal titolo «Sistemi integrati e multilinguismo nei servizi per la prima infanzia» (Roma, 27 gennaio 2016). Ad aprire la tavola rotonda, coordinata dal direttore di Repubblica Mario Calabresi, è stata la senatrice Francesca Puglisi, che ha incentrato il proprio intervento sulla riforma La Buona scuola: «Il grande obiettivo di questa legge è di garantire a tutti i bambini le stesse opportunità di apprendimento. Oggi, come sappiamo, nel segmento 0-3 abbiamo grandi differenze che attraversano il Paese: al Centro Nord si combatte per raggiungere il 30% di bambini al nido previsto dall'Europa, al Sud, nonostante i finanziamenti che arrivano dall'Ue ma anche dal Piano di azione e coesione, continuiamo a essere fanalino di coda in Europa. Questo ha effetti immediati sui livelli di apprendimento dei bambini, sul tasso di dispersione scolastica e occupazione femminile. La povertà di questo Paese nasce anche dall'assenza di servizi educativi 0-3. Combattere la povertà significa soprattutto garantire una rete di servizi educativi e scolastici adeguata e di qualità. Qualità significa: qualificazione del personale, coordinamento pedagogico e formazione continua. Non possiamo lasciare da soli gli educatori e gli insegnanti ad affrontare i profondi cambiamenti che le famiglie stanno vivendo. La legge avrà le risorse adeguate di cui necessita». Piero Gastaldo, segretario generale della Compagnia di San Paolo, ha sottolineato l'assoluta priorità di investire sull'infanzia: «Non può essere un tema tra tanti nell'agenda politica - ha evidenziato -, soprattutto in un Paese come il nostro che ha un tasso di natalità miserevole, un welfare centrato sulla fase di vita adulta/anziana e conseguenti tassi di povertà giovanili più ampi rispetto ad altri paesi europei». Il ruolo delle Fondazioni in questo senso, è centrale: «Abbiamo ampi gradi di autonomia, la possibilità di innovare e possiamo essere duttili, flessibili e strategici. All'interno del progetto TFIEY abbiamo creato una comunità che ci consente di confrontarci e sperimentare. La forza di questo progetto è che ci consente di creare processi condivisi di apprendimento, guardando a quello che succede in Europa, rapportandoci con realtà che hanno grandissima esperienza nell'ambito dell'infanzia, ma anche all'interno dei nostri stessi confini». Ma il confronto e l'apprendimento da soli non bastano: «La sfida è di riuscire a sostenere processi di innovazione ed è quello che stiamo facendo sostenendo le esperienze più significative su scala locale, regionale e nazionale». Cosa vuol dire innovare in un'area come il Sud d'Italia e in particolare in Calabria, che sconta una grave assenza di servizi? Don Giacomo Panizza: «In uno stato unitario non c'è uguaglianza su questo aspetto. Non è perché manchino fondi - la Calabria è una delle regioni che percepisce più fondi Ue -, ma perché quando quei soldi vengono stanziati non c'è nessuno a chiederli e a poterli gestire in modo ordinario. Per la Calabria oggi innovare significa arrivare a ottenere un minimo di servizi. Mihaela Ionescu, program director di ISSA International e dell'associazione Step by step nei Paesi Bassi ha precisato: «Non è la prima volta che combattiamo con la povertà, non è questa la vera novità. Il multiculturalismo è la vera novità per noi: ha portato all'aumento delle disuguaglianze, non solo etniche, ma individuali. Questo è un tema centrale in Ue e investe direttamente i bambini e le famiglie. La sfida è di coinvolgere, innovare oggi significa varcare i confini: delle strutture, degli approcci, andare oltre i sistemi e i servizi radicati nel passato che non sono più funzionali. In questo percorso il ruolo dei genitori deve essere cruciale: sono loro i principali partner nei servizi all'infanzia e sono loro ad avere l'impatto maggiore sulla vita dei bambini. È per questo che non possiamo non coinvolgere i genitori e i bambini stessi, che sono portatori di soluzioni. Sono i bambini a influenzare la forma dei servizi». Fondamentale è anche poter disporre di professionisti formati: «Oggi le università non seguono questa linea, non c'è formazione in questo senso - ha concluso -. È necessario che i risultati delle ricerche siano condivisi il più possibile ed è questo che TFIEY fa». |
2.
L'Italia non spende poco ma spende male |
L’intervento di Stefano Arduini (Vita) sul rapporto 2015 sulla lotta alla povertà della Fondazione Zancan «Sul piatto della protezione sociale l’Italia ogni anno mette più di 400 miliardi di spesa pubblica. Nel 2012 erano 424 miliardi, di cui 103 per la sanità (tutte prestazioni in servizi a carico delle Regioni), 287 per la previdenza (tutti trasferimenti economici a carico dell’Inps) e 34 per l’assistenza (di cui almeno tre quarti in denaro e gestiti dall’Inps). Includendo la (piccola) fetta di spesa privata si tratta di una quota pari al 28,9% del Pil nazionale: un valore in asse con il 28,6% della media Ue e il 29,1% della sola area euro. La spesa italiana è quindi allineata a quella dei nostri partner. L’Italia però spende male. Il dato emerge dal rapporto 2015 sulla lotta alla povertà della Fondazione Zancan (edito dal Mulino). Confrontando le percentuali di popolazione a rischio povertà prima e dopo i trasferimenti sociali, lo scarto è pari a 5 punti percentuali a fronte di una media europea dell’8,9%. Tra i minorenni poi la capacità dei trasferimenti di ridurre il rischio di povertà in Italia è di circa 7 punti percentuali, contro una media Ue di circa 14 punti. «L’efficacia della spesa sociale erogata sotto forma di trasferimenti (escluse le pensioni)», scrivono i ricercatori, «in termini di riduzione della quota di popolazione a rischio povertà, in Italia è quindi minore che negli altri principali Paesi europei». La conseguenza diventa evidente se ci chiediamo quanto è efficace la spesa per i trasferimenti sociali al netto delle pensioni. La Fondazione Zancan stima che in Italia per ogni milione di euro speso in trasferimenti escono dalla povertà 38,5 persone. Questa riduzione però mediamente nei Paesi dell’Unione europea è pari a 62 persone (sempre per milione di euro speso) e assume valori superiori rispetto a quello italiano in tutti i principali Paesi. Ma perché un euro investito in Italia rende quasi la metà di un euro investito in Spagna? «Le ragioni sono sostanzialmente due», spiega Maria Bezze, uno dei curatori dell’indagine della Fondazione padovana. La prima ha a che vedere con i beneficiari. La seconda con l’oggetto del trasferimento. Partiamo dal primo punto. «L’Inps ci dice che nel nostro Paese per ogni 100 euro spesi, soltanto 3 vanno al 10% più povero della popolazione; escludendo poi la spesa previdenziale, al 10% più povero sono destinati 7 euro su 100 spesi per prestazioni sociali non pensionistiche», spiega Bezze. Da analisi internazionali risulta che in Italia al 20% più povero della popolazione va il 9% di tutti i trasferimenti monetari pubblici, mentre mediamente nei Paesi Ocse va il 21,7% (dato 2010). Soltanto la Turchia destina una quota di trasferimenti inferiore a quella italiana (5,2%) a beneficio del 20% più povero. «Questo accade perché una larga parte dei supporti finisce nelle tasche di chi non ne avrebbe bisogno, o almeno non ne avrebbe bisogno in quella misura». (…) Nella prima metà dell’anno Fondazione Zancan insieme a Fondazione L’Albero della Vita ha chiuso una ricerca in 7 grandi città italiane che ha indagato la condizione delle famiglie «fragili» con figli minori. Quasi tre quarti delle 277 famiglie intervistate ha dichiarato di ricevere contributi economici (diretti o come compartecipazione a spese sanitarie, abitazione ecc.). Oltre 6 famiglie su 10 beneficiano di beni materiali di prima necessità. Solo una famiglia su tre si avvale invece di servizi di sostegno socio educativo, quasi una su cinque di orientamento/sostegno e una su sei di assistenza abitativa, una su otto (13%) beneficia infine di abbattimenti di tariffe/rette per l’accesso a servizi (in buona parte destinati a minori per mensa, trasporto scolastico ecc.). «Gli interventi ritenuti più utili», concludono i ricercatori «non sono tuttavia quelli ricevuti più frequentemente. In particolare, quelli ritenuti più validi sono mediamente i servizi di accoglienza (ludico ricreativa, residenziale, educativa), gli interventi di sostegno alle vittime di abuso e violenza, l’abbattimento di tariffe/rette per l’accesso a servizi, gli interventi di sostegno socio-educativo, i servizi di consultazione e orientamento. Minore utilità è invece associata ai contributi economici e ancora inferiore, ai beni materiali di prima necessità». |
3.
Solidarietà moltiplicativa contro lo spreco del welfare |
Anno nuovo welfare nuovo? La prima sorpresa potrebbe venire dal piano di lotta alla povertà. Speriamo vada «piano», non nasca prestazionistico, senza visione strategica, dopo anni di misure e non di lotta alla povertà. Intanto i bambini e ragazzi poveri sono raddoppiati. Destiniamo il 60% della spesa di welfare agli anziani e meno del 5% a infanzia e famiglia, Solo il 9% di tutti i trasferimenti monetari va al 20% più povero della popolazione, contro il 21,7% in media dei Paesi Ocse. La popolazione a rischio di povertà dopo i trasferimenti (escluse le pensioni) si riduce di 5 punti (media europea 9 nel 2012). Ogni milione di euro in trasferimenti sociali (escluse le pensioni) fa uscire dal rischio di povertà 39 persone contro le 62 della media Ue (45 in Germania, 56 in Francia, 70 in spagna, 72 nel Regno Unito, 76 in Svezia). Ogni anno il 5% del Pil (80 miliardi di euro) è per interessi sul debito. Potrebbero essere 50 se fossimo in media UE (3%). È spreco sistematico di risorse senza occupazione di welfare e meno povertà. Le 7 piaghe L’1% di Pil in spesa pubblica, se destinato alla lotta alla povertà, la ridurrebbe di 2,25 punti percentuali, come nella media di 30 Paesi Ocse («Cittadinanza generativa» ed. il Mulino 2015). Le sette piaghe di welfare sono il grande ostacolo: sussidiarietà a respiro corto, prestazionismo degenerativo, presunzioni da secondo welfare, approcci assicurativi della protezione sociale tradizionale, diritti senza doveri, aiuto che non aiuta, neoistituzionalizzazione. C’è quanto basta per spiegare i numeri impietosi, che ci dicono anche quanto e come potremmo migliorare, con diritti a corrispettivo sociale. Sono potenziale generativo a disposizione, se impariamo a pensare per investimenti sociali, «credendo nelle persone». La lotta alla povertà si fa con i poveri perché senza di loro è impossibile. Significa riconoscere ad ogni persona dignità e capacità, non mancarle di rispetto, non ridurla ad assistito, non perpetuare il rapporto di potere tra chi aiuta e chi è aiutato. Il consenso democratico non si conquista così, ma alimentando sistemi di fiducia. Cittadinanza generativa Significa nuovi modi di essere società con le persone, mentre i diritti a riscossione di prestazioni sono sempre più deprivati di responsabilità sociale. Non garantiscono più la redistribuzione che riduce le disuguaglianze. In passato sono stati rivoluzionari, riconoscendo dignità, rispetto, tutela, libertà. Ma oggi è necessario riaffrontare questa sfida, socializzando il rendimento dei diritti, mentre l’entropia da individualismo fa implodere la sostenibilità dei sistemi di welfare. La cittadinanza generativa ci spinge oltre il welfare assicurativo, quello capace di «raccogliere e redistribuire», ma incapace di osare di più, per «rigenerare, rendere, responsabilizzare». Abbiamo bisogno di solidarietà moltiplicativa, a chilometri zero, con ogni persona, anche con i poveri, rigenerando i valori a disposizione. Ci vorrà tempo. Chi ha provato a lottare «con i poveri» contro la povertà ha potuto non solo conoscere ma anche misurare i potenziali del rendimento generativo: meno povertà, più umanità e sussidiarietà, più impatto sociale da condividere e reinvestire. Che sia un buon anno. Fonte: Rubrica Welfarismi di Tiziano Vecchiato, Vita, gennaio 2016 |
4.
Non autosufficienza: il sistema va aggiornato |
A otto anni dall’approvazione della legge toscana sulla non autosufficienza, le risposte offerte non soddisfano molte delle famiglie, tanto che solo in quattro casi su dieci si arriva alla presa in carico da parte del sistema pubblico; negli altri si cercano soluzioni alternative per far fronte ai bisogni che la condizione di non autosufficienza porta con sé. È il quadro che emerge da un’indagine su un campione di 600 anziani e da una serie di focus group con gli attori del sistema realizzata nella regione Toscana dalla Federazione pensionati della Cisl Toscana, in collaborazione con la Fondazione Zancan. La ricerca è stata presentata il 21 gennaio a Firenze nel corso di un convegno, al quale hanno preso parte il segretario nazionale Fnp-Cisl Toscana Ermenegildo Bonfanti, l’assessore regionale Stefania Saccardi, la segretaria Cisl regionale Rossella Bugiani, il presidente della Conferenza Sociosanitaria Sud-Est Francesco Casini, il direttore della Società della Salute Firenze Andrea Francalanci, il segretario generale Fnp-Cisl Toscana Mauro Scotti e il direttore della Fondazione Zancan Tiziano Vecchiato. L’indagine ha coinvolto anziani, familiari, professionisti impegnati nell’accoglienza e nella presa in carico, decisori istituzionali e responsabili dei servizi per la non autosufficienza, volontari delle organizzazioni di volontariato impegnate nel settore. «Nella fase attuale di riorganizzazione complessiva del sistema sociosanitario toscano – è stato detto nella presentazione della ricerca - è necessario ripensare il sistema dei servizi territoriali di presa in carico, partendo proprio dai punti insieme che dovevano rappresentare la porta di accesso privilegiata del sistema, ma che di fatto svolgono una funzione molto diversa da quella prefigurata dalla legge regionale. Nella graduatoria dei canali informativi si collocano al settimo posto (11%) e rappresentano il presidio di accesso in poco meno di un terzo (31,6%) dei casi. Le criticità rilevate dall’indagine riguardano anche le risposte proposte (400 i piani assistenziali presi in esame) che sono state tempestive e in linea con quanto previsto solo per il 60,3% degli intervistati, tempestive ma parziali secondo il 25,1%, in ritardo a detta del 12,4%. E ancora: la legge prevede l’individuazione di un responsabile, con il compito di seguire l’attuazione del Piano come referente della persona e dei suoi familiari; ebbene, i rapporti con questa figura sono giudicati saltuari nel 51% dei casi e assenti nel 21,6%. Per quanto riguarda l’adeguamento del piano assistenziale all’evoluzione della situazione personale dell’anziano, soltanto nel 31% dei casi, con il passare del tempo, sono state previste modifiche rispetto alle risposte iniziali. Nel complesso, soltanto la metà degli intervistati si ritiene soddisfatto delle risposte contenute nel piano assistenziale, il 33,9% le giudica parziali, mentre il 10,2% le ritiene insoddisfacenti. Su 100 situazioni di bisogno potenziale, soltanto 42 arrivano a concludere il percorso di presa in carico, con l’accesso agli interventi del sistema sociosanitario pubblico. Negli altri le famiglie scelgono di farsi carico della persona non autosufficiente, rivolgendosi a Rsa private, a badanti o con un familiare che svolge direttamente la funzione di «caregiver». Ciò accade, come evidenzia la ricerca, per molti e diversi motivi: perché mancano informazioni, perché la famiglia preferisce fare da sola, perché le risposte non sono ritenute adeguate, perché i tempi di risposta sono considerati eccessivamente lunghi. È quindi evidente che il sistema va rivisto, proprio partendo da un maggiore coinvolgimento dei familiari, che devono essere sostenuti, anche in considerazione del fondamentale apporto alla tenuta del sistema, che la ricerca conferma. Quattro in particolare le esigenze sottolineate dalla Fnp: pensare forme di sostegno non solo per l’anziano ma anche per la famiglia e il caregiver; riflettere sull’allocazione delle risorse, oggi concentrate quasi esclusivamente sulle situazioni più gravi; coinvolgere tutti gli attori del sistema, compresi i medici di famiglia; coinvolgere di più il mondo del volontariato, soprattutto con il ruolo di supporto alle reti familiari e al caregiver. La ricerca evidenzia il frutto degli investimenti della Regione Toscana per la facilitazione dell'accesso ai servizi, ma mette in luce anche alcune criticità che vanno affrontate. Il problema vero non è tanto quello degli accessi: non è sufficiente dare risposte se lo si fa in modo prestazionale. Servono risposte capaci di garantire una presa in carico multiresponsabile dei bisogni della persona e della sua famiglia. Quando questo avviene, diventa possibile valorizzare al massimo i potenziali del singolo e del suo nucleo familiare, ottimizzando sia il rendimento clinico sia la sostenibilità economica e la vivibilità di chi sceglie di prendersi cura degli anziani a casa. Il problema è la governabilità di un'offerta che si compone non solo delle capacità pubbliche, ma anche di quelle private, familiari, che devono essere integrate e meglio valorizzate. |
5.
Bambini maltrattati |
L'Italia a Gerusalemme, e viceversa, per conoscere, approfondire e condividere esperienze in materia di tutela dei minori maltrattati e vittime di abuso. È iniziata la prima fase del progetto di scambio «Imparare per fare e per innovare i servizi di tutela minori nell’area mediterranea», organizzato in collaborazione tra Haruv Institute di Gerusalemme, Fondazione Emanuela Zancan onlus di Padova, che cura la parte scientifica della visita, e Associazione Carmela Giordano (Bari). La delegazione italiana è stata ospite dell'Istituto Haruv, costituito dalla Fondazione Schusterman nel 2007 con l’obiettivo di migliorare le conoscenze e sviluppare progetti con professionisti e caregiver che lavorano con bambini maltrattati e vittime di abuso e le loro famiglie. È un centro di ricerca impegnato nella ricerca di soluzioni alle innumerevoli sfide poste dai professionisti che operano in quest’area. Lo scopo è di aumentare la collaborazione tra università, centri di studio, organizzazioni non governative ed enti che si occupano di questi temi per condividere le conoscenze e le competenze in materia di sviluppo di servizi e politiche per i bambini maltrattati e vittime di abuso. Per questo sono previste visite in servizi specifici, come centri di advocacy e servizi residenziali, momenti seminariali con presentazione di ricerche e incontri con responsabili politici a livello locale e nazionale. Concretamente si punta a creare una piattaforma per future attività comuni, come la configurazione di servizi in modo trasversale, una formazione comune sul maltrattamento, l'avvio di collaborazioni di ricerca. È proprio su questo aspetto che si è focalizzata la relazione di apertura di Asher Ben Arieh, docente della Hebrew University of Jerusalem e direttore di Haruv. Oltre a Cinzia Canali, ricercatrice della Fondazione Zancan, hanno partecipato alla visita componenti dell’Associazione Carmela Giordano e dell’Ordine regionale degli Assistenti sociali, Francesca Cisternino, Vincenza Del Vecchio e Cinzia Mongelli della Asl di Bari; Silvana Calaprice e Michele Corriero, dell'Università di Bari; Rosangela Paparella, garante dei diritti dei minori della Regione Puglia. La collaborazione si svilupperà con visite di scambio anche in Puglia e ulteriori approfondimenti professionali e scientifici. |
6.
Il futuro nelle nostre mani. Investire nell'infanzia per coltivare la vita |
Investire nell’infanzia significa fare una scelta molto precisa: aiutare la vita rispettandola e coltivandola. Questo volume nasce da una ricerca svolta in Italia, in Europa e in Nord America, terre in cui si concentrano grandi ricchezze, ma anche molte contraddizioni «esistenziali» che penalizzano soprattutto i bambini più piccoli (0-6 anni) proprio nel momento in cui si affacciano alla vita. Tfiey Italia, in dialogo con il Tfiey internazionale (Transatlantic Forum on Inclusive Early Years) e con molte altre istituzioni filantropiche italiane e internazionali, ha svolto un lungo lavoro di indagine per individuare quali politiche, quali strategie e quali pratiche sono necessarie per innovare i servizi educativi, sanitari e sociali a favore dei bambini più piccoli e più poveri. Sono state così evidenziate e approfondite molte criticità: le difficoltà di accesso ai servizi, le diverse povertà dei bambini, i bisogni che non trovano risposta, i potenziali del multilinguismo e delle appartenenze identitarie. Tra le possibili soluzioni ci sono le nuove competenze professionali, il coinvolgimento e la partecipazione dei genitori, le potenzialità inespresse dei sistemi integrati, le responsabilità che potrebbero essere meglio valorizzate. Il risultato di tre anni di intenso lavoro è condensato in questo volume, che vuole essere uno stimolo alla riflessione per le diverse istituzioni coinvolte nei processi decisionali e per tutti coloro che a vario titolo sono interessati ai processi di inclusione dei bambini e delle famiglie. Tfiey Italia è la declinazione nazionale di un forum transatlantico composto da ricercatori, esperti, operatori, decisori politici europei e del Nord America dedicato alle politiche per lo sviluppo dell’educazione e della cura della prima infanzia (0-6 anni). Nasce dalla convinzione che investire nella prima infanzia significa garantire nel tempo maggiore benessere, migliori opportunità di accesso all’educazione, potenzialità economiche e lavorative, con forme di cittadinanza e genitorialità responsabili. La Fondazione Emanuela Zancan, onlus di ricerca di rilevante interesse sociale, ha garantito il supporto scientifico alle attività del Tfiey a livello nazionale e internazionale, contribuendo all’elaborazione e disseminazione dei risultati. (Ed. Il Mulino, 2016 – pp. 200 – 20,00€) |
7.
Studi Zancan: cittadinanza generativa, valutazione di impatto, accoglienze familiari |
La crisi attuale sta mettendo a dura prova i sistemi di welfare, con conseguenti deficit di sostenibilità e di fiducia. È una deriva inevitabile? Il quinto numero di Studi Zancan apre con un articolo di Maria Bezze, Devis Geron, Elena Innocenti e Tiziano Vecchiato che risponde a questa domanda facendo sintesi del Rapporto sulla lotta alla povertà 2015 della Fondazione Zancan, «Cittadinanza generativa». Si evidenzia la necessità di adottare approcci di welfare generativo. Gli schemi di protezione sociale in Italia, basati prevalentemente su trasferimenti monetari, producono risultati poco incoraggianti. Per contribuire a individuare nuove e più efficaci soluzioni, si propone un’articolata proposta di legge che definisce e regola le modalità di rigenerazione e rendimento delle risorse a disposizione, mediante la responsabilizzazione dei beneficiari di interventi di sostegno economico, che volontariamente possono realizzare azioni a corrispettivo sociale a vantaggio della comunità. La realizzazione di queste azioni prefigura soluzioni di «cittadinanza generativa» a beneficio di tutti, a partire dai più deboli. Segue un articolo di Tiziano Vecchiato sulla valutazione di impatto. La sfida degli esiti non può essere evitata. La differenza tecnica tra esito e impatto è sostanziale: gli esiti sono beneficio diretto per i destinatari, mentre l’impatto è beneficio esteso alla comunità. La valutazione di impatto sociale è chiamata ad entrare nel merito dei potenziali a disposizione per meglio identificare quanto i servizi di welfare riescono a redistribuire bene comune. Paolo Rametta affronta il tema della riforma dei sistemi di welfare. Il tentativo è di mettere al riparo le fondamenta del moderno Stato sociale dalle fluttuazioni e dai rischi provocati dalle minori risorse finanziarie disponibili. In particolare è in pericolo la tutela dei diritti fondamentali, indissolubilmente legati all’erogazione da parte dello Stato di prestazioni che dei diritti sono esecutrici e attuatrici. La sezione monografica, a cura di Roberto Maurizio, sintetizzata una ricerca svolta in Emilia-Romagna per valutare i processi di lavoro tra servizi sociali e sanitari, comunità, famiglie di accoglienza e affidatarie, per rendere più efficaci i collocamenti dei minori fuori famiglia. L’articolo conclusivo di Giulia Barbero Vignola, Barbara Montini, Maurizio Schiavon, Daniele Bordin e Martin Eynard è dedicato al tema dell’obesità nei giovani. L’obesità è infatti uno dei maggiori problemi di salute pubblica dei nostri tempi. La sua prevalenza è in costante aumento non solo nei paesi ricchi, ma anche in quelli a basso/medio reddito e, fatto ancor più preoccupante, interessa adulti e bambini. L’obesità infantile espone a complicanze fisiche morbose quali difficoltà respiratorie, problemi articolari, mobilità ridotta. Bambini obesi hanno una più alta probabilità di diventare adulti obesi, con le conseguenze che ciò comporta riguardo al più alto rischio di sviluppare malattie croniche del cuore e il diabete di tipo 2. Vi sono inoltre conseguenze psicologiche, perché i ragazzi spesso si sentono a disagio, fino ad arrivare a un vero e proprio rifiuto del proprio aspetto fisico e allo sviluppo di un senso di insicurezza che li porta all’isolamento. |
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